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Storia degli ebrei a Genova

La storia degli ebrei a Genova è documentata a partire dal VI secolo: le prime notizie sugli ebrei in questa città sono infatti costituite da due lettere dell’imperatore Teodorico con le quali autorizza il restauro della locale Sinagoga, escludendo lavori di ampliamento e abbellimento dell’edificio.
Relativamente al Medioevo, tracce della presenza ebraica a Genova risalgono al  XII secolo, quando da un documento del 1134 si apprende che venne  imposta agli israeliti una tassa di 3 soldi per l’illuminazione dell’altare di S. Lorenzo;  altre informazioni sugli ebrei in questa città giungono da una serie di atti notarili del 1158 e del 1162 e da un breve cenno che riporta Beniamino da Tudela (circa 1165), nel suo Libro di  viaggi, in cui attesta di aver trovato a Genova due fratelli ebrei, d’origine nord-africana (Ceuta): questa osservazione non esclude  la possibilità che ve ne fossero stati altri, di diversa provenienza, e che una presenza ebraica si potesse trovare nelle vicinanze di Genova, se non nell’area urbana. 
Ulteriori documenti notarili testimoniano la presenza di ebrei a Genova nei secoli XIII e XIV riportando squarci  di vita di questo piccolo nucleo, come le notizie riguardanti alcuni ebrei d’origine provenzale, tra cui tale Joseph, figlio di Salomone di Marsiglia, di cui si riferisce il matrimonio contratto in Genova con Flora di Vitale, o a proposito di certo Baruch, originario di  Hyères, che commerciava a Genova in sale e grano o ancora Vita Ferizzolo, giunto in questa città per chiedere ad un esperto artigiano genovese di insegnare al figlio l’arte della manifattura della carta.

I sefarditi

Il primo accenno agli ebrei che iniziavano ad abbandonare la Spagna è un documento del 1478, in cui veniva concesso un salvacondotto ai passeggeri di una nave che, giunta nelle vicinanze del porto di Genova, avrebbe dovuto rimanervi in sosta per riparazioni, in attesa di poter salpare nuovamente. In seguito è documentato l’arrivo di altre navi cariche di ebrei esuli dalla Spagna, che giungono a Genova tra gennaio e aprile del 1492, prima ancora dell’emanazione del decreto di espulsione. Notizie più dettagliate sull’approdo a Genova degli ebrei esuli dalla Spagna ci giungono dalla cronaca redatta dal Cancelliere Senarega; questi riferisce in merito alla massa degli esuli, stremati dalla fame, dal freddo e dai disagi, sistemata in una parte del Molo, per riprendersi un poco dalla navigazione in attesa di ripartire, secondo le antiche disposizioni genovesi che non permettevano una sosta in città di più di tre giorni, oppure nella vaga speranza di ricevere un salvacondotto.
Per la maggior parte dei profughi ebrei non ci fu alcun permesso di ingresso in città, anche in seguito all’accanita predicazione contro l’accoglienza sviluppata dal frate Bernardino da Feltre, essi rimasero quindi accampati sul Molo, subendo  l’eccezionale rigidità dell’inverno del 1493, in condizioni di sopravvivenza così precarie che molti si convertirono, altri furono costretti a cedere i figli come servi e altri ancora furono venduti come schiavi.  Il 31 gennaio 1493 un decreto di espulsione per gli ebrei, anche se convertiti, fu promulgato dalle autorità genovesi, pare tuttavia che di questo decreto venisse data solo una parziale esecuzione, in ogni caso vengono proibiti nuovi sbarchi di profughi ebrei e l’anno successivo, nel 1494, quasi tutti gli ebrei presenti a Genova dovettero ripartire; tra i pochi cui fu consentito di rimanere in città vi furono alcuni medici di rinomata perizia inoltre è registrata la presenza, per un certo periodo, dell’importante famiglia Abravanel. Di questa famiglia è in particolare documentato il soggiorno a Genova di Jehudah, meglio conosciuto con il nome di Leon Ebreo, che visse successivamente a Roma, Napoli, Firenze e Venezia, esponente di rilievo del Rinascimento come medico, filosofo e poeta e che probabilmente proprio a Genova iniziò a comporre l’opera “Dialoghi d’ amore” che ebbe enorme diffusione nel ‘500 e nel ‘600.
Molto più lunga e documentata – possiamo infatti seguirla per buona parte del XVI secolo – è invece la presenza a Genova e nei territori limitrofi di Novi, Ovada e Voltaggio, di un’ altra famiglia sefardita, quella di Jehoshua Ha-Cohen e soprattutto del figlio Josef Ha-Cohen. Questi fu medico, scrittore e cronista, compose un’ importante opera di storia ebraica, “Emek Habakha- Valle di pianto” che costituisce un’interessante fonte di notizie per le vicende degli ebrei in Italia.

L’età del ghetto e la ritrovata libertà
L’ atteggiamento della Repubblica di Genova nei confronti degli ebrei tra il XVI e il XVII secolo, è in generale caratterizzato da un orientamento contraddittorio, ufficialmente vietava  la presenza di una comunità ebraica, tuttavia concedeva a mercanti o a medici ebrei autorizzazioni di residenza, più o meno ampie nel tempo, in città e nei territori, inoltre, pur subendo l’influenza delle Chiesa, giungeva talvolta a scendere in polemica con le  autorità ecclesiastiche quando riteneva che le iniziative da queste adottate contro i sudditi ebrei costituissero un’intromissione nel suo potere giurisdizionale. 

Verso la metà del XVII secolo, in epoca in cui la situazione economica della città era ormai poco florida, Genova decide di istituire il porto franco, si apre così la strada al riconoscimento dell’insediamento ebraico che veniva ufficializzato nel 1658 con documento emanato dai Serenissimi Collegi contenente un “privilegio Capitoli per la natione hebrea, alla quale è stato concesso il venire ad habitare nel Dominio della Serenissima Repubblica di Genova”. L’applicazione di queste concessioni in favore di un insediamento di ebrei a Genova fu a lungo ostacolata dalla curia romana che imponeva condizioni più dure, come l’obbligo di assistere a prediche forzate in alcune chiese della città, al fine di indurli alla conversione al cristianesimo.

Nel 1659 gli ebrei finalmente riammessi a Genova vengono stanziati con il primo ghetto nella contrada di Vico del Campo dove rimasero sino al 1674. In quell’ anno dovettero trasferirsi in un ghetto più capiente, in Piazza dei Tessitori, vicino alla chiesa di Sant’Agostino. Dalla seconda metà del ‘600 assistiamo quindi al progressivo costituirsi della comunità ebraica, sia pure attraverso nuove fasi di quella ormai radicata politica della città verso gli ebrei, contrassegnata dall’alternarsi contraddittorio di conclamate espulsioni e di comportamenti pragmatici improntati a tacita tolleranza. A partire dal 1752, dopo una nuova espulsione, ci sarà la definitiva riammissione, la soppressione del vincolo del ghetto e delle altre umiliazioni e il riconoscimento degli Statuti che regolavano l’autonomia e l’organizzazione interna della Comunità. Gli ebrei si erano nel frattempo concentrati nella zona di Mura della Malapaga, dove aveva sede la Sinagoga che là sarebbe rimasta fino al 1935. Per tutto il ‘700 e i primi decenni dell’‘800 la Comunità rimase limitata a non più di duecento persone, per la maggior parte rigattieri e piccoli commercianti; pochi sono gli imprenditori, come quelli che ottengono alla fine del ‘700 l’ esclusiva della vendita del caffè e dell’ acquavite.

La rinascita
Solo con la seconda metà dell’‘800 inizia la crescita della comunità che, parallelamente allo sviluppo della città, accoglie via via nuclei sempre più numerosi di correligionari provenienti da altre regioni italiane, Piemonte, Toscana, Emilia, ma anche da stati esteri, in particolare dalla Germania e dall’ Impero Ottomano. Nel volgere di pochi decenni, dopo la prima guerra mondiale, la Comunità giunge così a superare le duemila unità e appare chiaramente inserita nel contesto sociale ed economico della città. Questa crescita demografica non è tuttavia accompagnata da un pari consolidamento delle istituzioni comunitarie,  gli ebrei, a Genova, come più in generale in Italia e nell’ Europa occidentale, subivano allora una forte crisi di assimilazione che distoglieva non solo dalle pratiche religiose, ma spesso dalla stessa consapevolezza della propria identità; nel contesto specifico del capoluogo ligure, la crescita demografica avvenuta così rapidamente non aveva consentito il formarsi di un più intenso legame con la Comunità.
L’inaugurazione della nuova Sinagoga, nel 1935, con una solenne cerimonia svoltasi alla presenza delle autorità cittadine, parve essere emblema di un più forte legame,  in grado di rappresentare al tempo stesso il punto di riferimento per tutti gli ebrei di Genova e il segno concreto di una significativa presenza nel contesto cittadino. Sembrava l’inizio di un’epoca brillante, era invece la vigilia del periodo più tragico.

Le leggi antiebraiche e l’occupazione nazista
Nel 1938 le leggi razziali imposte dal regime fascista determinano, con il loro pesante carico di sconvolgimenti e umiliazioni, un drammatico risveglio per gli ebrei italiani. La situazione a Genova è ancor più complessa; nuovamente, come quattro secoli prima, il capoluogo ligure diviene meta, a partire dagli anni ’30 e fino all’ autunno del ’43, di un intenso flusso di profughi, questa volta dalla Germania e dall’ Europa centrale, in fuga dal regime nazista e alla disperata ricerca di qualche meta di salvezza.
Trovano ad accoglierli i volontari della Delasem, la società di soccorso per i profughi ebrei, istituita su iniziativa dell’Unione delle Comunità israelitiche italiane e qui diretta da Lelio Vittorio Valobra, che operava con tutti i mezzi e l’entusiasmo che i tempi precari consentivano.
Con l’8 settembre del ’43, e la susseguente occupazione tedesca, la situazione precipita; gli arresti e le deportazioni degli ebrei di Genova hanno inizio ai primi di novembre del ’43, quando le Ss fanno irruzione nella Sinagoga e costringono il custode a consegnare l’anagrafe con gli iscritti alla comunità; un primo gruppo di ebrei viene quindi catturato in sinagoga con un tranello, il giorno seguente viene arrestato il Rabbino Riccardo Pacifici, molti altri lo seguirono nella tragica sorte.
L’ aiuto coraggioso di alcuni cittadini, l’intervento concreto ed autorevole della Curia genovese, su iniziativa del Cardinale Boetto, con la collaborazione di Don Repetto e di altri sacerdoti, in coordinamento con  quel personaggio straordinario che fu Massimo Teglio – “la primula rossa“ – contribuirono ad assicurare la salvezza e ad alleviare le sofferenze di molte famiglie.
Non mancarono tuttavia spregevoli episodi di delazione che segnarono la tragica sorte di altri ebrei. Alla fine dei tragici eventi si contarono 261 ebrei deportati, ne tornarono 20. In queste scarne cifre si sintetizza l’esito in vite umane della Shoà in Liguria.

Dal dopoguerra ad oggi
Quella che si riaffacciò alla vita alla fine di aprile del ’45 era quindi una comunità duramente colpita dalle deportazioni, prostrata, numericamente ridotta a meno della metà. Poi ci fu comunque la tenace ripresa della vita comunitaria, sia pure in una dinamica di ulteriore ridimensionamento demografico dovuto alle aliyot, le emigrazioni che portarono parecchi giovani, negli anni e decenni successivi alla costituzione dello Stato d’Israele, a scegliere di rivolgere il loro destino verso la Terra dei padri. L’orientamento di quei giovani ha lasciato una forte traccia nel legame intenso che la Comunità manifesta nei confronti del rinnovato stato ebraico. Dal punto di vista dell’impegno umanitario, anche nel dopoguerra, in diversi momenti, la Comunità è stata nuovamente coinvolta nell’assistenza a profughi in transito, inizialmente si trattò di reduci della deportazione o comunque sopravvissuti alla Shoah, in periodi successivi giunsero a Genova ebrei dall’oriente in fuga dai paesi arabi, o dall’occidente, per sfuggire ai regimi opprimenti dell’Europa dell’est.

Nel corso degli ultimi anni diversi fatti hanno caratterizzato la vita della Comunità ebraica di Genova; dal punto di vista dell’orientamento generale verso l’esterno, verso la città in particolare, all’atteggiamento di composta chiusura, che le tragiche ferite della Shoah avevano determinato per diversi anni nel comportamento della Comunità, si è andata sostituendo una vivace disponibilità al dialogo e all’incontro, ne è, fra l’altro, testimonianza concreta l’importante spazio espositivo rivolto alla città ricavato nel piano sovrastante la Sinagoga, in locali totalmente trasformati, un tempo destinati alla scuola e successivamente caduti in abbandono.
La stessa Sinagoga ha subito diverse innovazioni, sempre nel rispetto della tradizione. Molte di queste recano la firma del compianto artista Emanuele Luzzati, che nei suoi molteplici impegni volle esprimere anche il suo intenso sentimento per questa Comunità; l’impegno per la vita sociale comunitaria e la tradizionale attenzione all’educazione ebraica dei bambini hanno trovato riscontro in rinnovati locali ricavati con significativi lavori di ristrutturazione.
Agli antichi arredi sacri se ne sono aggiunti dei nuovi, cosi come un nuovissimo Sefer Torah è oggi nell’uso rituale insieme a quello più antico del XVII° secolo. Tutti questi sono segni di una di una Comunità che, pur numericamente ridotta, si impegna per mantenere la propria vita e identità ebraica, per dare testimonianza della storia e dei valori del popolo d’Israele, valori di giustizia e di fede, che l’ebraismo conserva e alimenta, anche nel confuso evolversi degli avvenimenti del nostro tempo, come patrimonio spirituale rivolto all’umanità.

 

 

 

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